8 feb 2010

Lettera aperta alla città (sulla Casa della Pace e non solo) di federico chicci

Lettera aperta alla città (sulla Casa della Pace e non solo)

Non so quanti di voi se ne siano accorti (e spero in molti) ma questa città soffre di una gravissima malattia. Non è, oramai da molti anni, più capace di fare sistema, di seminare frutti (spazi) di condivisione e di progetto. È una città abbandonata a se stessa, o meglio al business predatorio (e di rendita) e alla mera tutela degli interessi parassitari e proprietari delle sue lobbies economiche e culturali. Una città alla deriva che non sa promuovere, non sa mettere più a progetto le sue enormi, e vorrei dire più uniche che rare, potenzialità di laboratorio sociale e di fare cooperativo. Certo mi si potrebbe ribattere che il turismo ha tenuto e sta tenendo nonostante la crisi globale... ed è un bene, ma per quanto la città, la sua fisionomia, la sua prospettiva potranno continuare a reggersi su tale orizzonte? Sempre più frequenti sono infatti i segnali di una crisi che non è solo duramente economica ma profondamente iscritta nei nodi del tessuto sociale che la sostiene.

Questo mio brevissimo intervento, che avrebbe bisogno di ben altre argomentazioni a sostegno, vuole essere anche una precisa manifestazione di disagio verso il modo in cui si governa politicamente la città. Quest’ultimo non mi pare sia davvero all’altezza del (certo gravoso) compito della contemporaneità che ogni giorno attraversiamo, volenti o dolenti, in tutte le sue preoccupanti contraddizioni. La città avrebbe bisogno di ben altro, rispetto al cemento che ogni giorno continua a colarci addosso. E pensare che avremmo anche delle infrastrutture incredibilmente efficienti! Questo non è affatto sviluppo. Al limite il suo contrario.

Il problema, e questo è il fatto più grave, è che non solo di tutto ciò non se ne preoccupa (la classe dirigente allargata, intendo questa volta) ma si fa di tutto per distruggere e dilapidare anche quello che è rimasto di virtuoso nella nostra “fabbrica” sociale.

L’elenco che figura e da corpo a questo mio disagio sarebbe lungo da motivare (non è questo il contesto in cui farlo analiticamente), ci basti pensare a titolo di esempio quanto poco costruttivo e promozionale dei saperi locali è l’investimento (ma è davvero tale? Personalmente ho molti dubbi) che l’amministrazione ogni anno fa sul capodanno attraverso la Rai. Pensiamo anche solo per un attimo a quale operazione di alta cultura musicale e dell’intrattenimento si potrebbe organizzare diffusa sul territorio solo con una minima parte di quel budget. E quanto potrebbe giovare al nostro territorio (al centro storico oramai morente, in primis) e ai nostri saperi professionali del loisir un’operazione alternativa di questo respiro.

Ma veniamo al motivo specifico per cui ho deciso di rivolgermi ai lettori di questo giornale (ma questo andava assolutamente contestualizzato per essere ben compreso). Un patrimonio importante della città (della città civile, culturale, politica ma anche dell’auto-organizzazione sociale) come è certamente la Casa della Pace (per la sua storia e per il suo presente) rischia, per mano della miopia di queste nostre (uso il plurale non a caso) amministrazioni, di essere frammentato e spezzato e quindi di andare irrimediabilmente perduto. Un patrimonio enorme, fatto di cultura, condivisione, dedizione, impegno e solidarietà. Non mi dilungherò a descrivere nel dettaglio cosa sia la Casa della Pace (non ho né la giusta competenza né lo spazio per farlo qui), spero che molti di voi ne conoscano già le importanti attività e ne comprendano quindi immediatamente il valore. Certamente però il posto che occupa la Casa della Pace nel cuore antico della città gli spetta, diciamo in senso lato, per “uso capione”.

Oppure, se quello spazio di via Tonini deve necessariamente essere usato per altre attività, sia individuato subito e senza indugio (da chi di dovere) un luogo adatto dove trasferire le sue attività. Il posto ci sarebbe pure. In via Brighenti n. 24, nel nostro amatissimo centro storico, esiste un luogo ancora pubblico la cui alienazione (attraverso un asta pubblica di vendita) da parte dell’amministrazione non è andata, per più volte consecutive, a buon fine (nessun compratore al suo prezzo indicato come quello di “mercato”, dunque). Ora probabilmente tale spazio verrà (suppongo, ma è solo una congettura) rimesso all’asta ad un prezzo inferiore e quindi, permettetemi di dirlo, a mio parere “svenduto” al privato. In quel luogo invece potremmo iniziare a progettare un nuovo, e comune, centro storico; potremmo individuare e impiantare un importante polmone di socialità e soggettività per la città. Convogliare qui non solo la Casa della Pace ma tutta una serie di attività laboratoriali, culturali, creative, di promozione dei saperi e perché no? di solidarietà (il posto è grande e ben attrezzato e può contenere e mettere a frutto tali fondamentali -oggi più che mai- sinergie).

Oramai sono anni che lavoro a Bologna, ma come molti altri non riesco a lasciare la mia città (dove tutt’ora abito da pendolare). Quello che sta accadendo oggi a Rimini mi pare grave e non mi è stato possibile trattenermi dal rivolgere questo accorato appello personale. Vi chiedo, anzi vi prego con qualsiasi mezzo civile e democratico di sostenere la “causa” della Casa della Pace. C’è in gioco davvero il destino di tutti noi.

Grazie per la vostra preziosa attenzione.

Federico Chicchi

(docente di Sociologia del lavoro- Università di Bologna).

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